Editoriale

IL PUNTO

Le élites della manifattura in un Paese a ridotta capacità produttiva

di Erminio Bissolotti

Nell’ultimo incontro organizzato dalla Società italiana di economia e politica industriale (Siepi), alla fine dello scorso anno, il prof. Sergio De Nardis della Luiss ha mostrato come le Pmi italiane riescano a fare meglio delle loro omologhe tedesche e francesi, nonostante la capacità produttiva del nostro Paese sia diminuita del 42% dal 2008 a oggi.

Pare un paradosso, eppure, fatto 100 il valore aggiunto per addetto generato dal tessuto produttivo tedesco, il medesimo indice riferito alle piccole e medie imprese tricolori è più alto nelle realtà con una forza lavoro tra 10 e 19 dipendenti, così come per quelle che contano fra 20 e 49 lavoratori e tra 50 e 249 addetti. Le stesse proporzioni valgono anche per il raffronto fra le nostre Pmi e le loro «cugine» transalpine. Il parallelismo con Germania e Francia, invece, risulta a nostro svantaggio per quelle realtà con meno di nove occupati.

Negli ultimi quindici anni, tutto sommato, le imprese italiane hanno compiuto un importante percorso di sviluppo, grazie anche alla diffusione di attività sempre più innovative. Lo si evince

anche dall’analisi realizzata dall’Università degli studi di Brescia, che punta i riflettori su un migliaio di piccole e medie aziende attive nel nostro territorio e protagoniste, nonostante le avversità generate dalla pandemia, di una crescita costante e a tassi consistenti nel quinquennio 2018-22.

Tuttavia, un recente rapporto realizzato da Raffaele Brancati (Centro studi Met) e pubblicato dall’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, riconosce che «uno dei compiti di una politica industriale avveduta è non solo assecondare questi soggetti (le Pmi, ndr), ma anche indirizzarli, ove possibile, verso i percorsi di crescita considerati desiderabili e legati ai nuovi indirizzi, per esempio, di sostenibilità sociale e ambientale». Nessuna obiezione in merito, anzi. Malgrado ciò, lo stesso Brancati rileva che, analizzando le motivazioni per cui le imprese italiane interrompono il loro piano di sviluppo spesso «sono emersi, con rilevanza diversa a seconda dei periodi, due vincoli prevalenti: quello di natura finanziaria e quello legato alla qualità del capitale umano».

Le Pmi italiane presentano tassi di crescita migliori delle loro omologhe francesi e tedesche

Va ammesso che con l’intento di migliorare la struttura finanziaria delle Pmi sono stati fatti fin qui interventi di politica economica che hanno prodotto risultati apprezzabili. Altrettanto non si può dire per ciò che riguarda il capitale umano: la difficoltà a reperire competenze e la pesante distanza tra la domanda e l’offerta di lavoro pesano sulla testa degli imprenditori come una spada di Damocle. In questo caso non è sufficiente elargire risorse o dispensare bonus fiscali alle singole aziende: sono richieste politiche attive che rispondano ai bisogni e alle difficoltà specifiche degli operatori e che presuppongano un’applicazione nel medio lungo periodo.

Nell’attesa di un segnale concreto da parte del governo, alcuni giorni fa la Corte dei Conti ha lanciato un nuovo campanello d’allarme sul Piano di ripresa e resilienza. Il Pnrr, in buona sostanza, sta centrando tutti gli obiettivi procedurali previsti dal cronoprogramma, ma la spesa effettiva procede a rilento e rischia di slittare. In altre parole, guardando ai progetti analizzati, la Corte ha concluso che il tasso di progressione della spesa per l’intera durata del piano (2020-2026) risulta pari al 74,57%: su 4 miliardi circa ne sono stati spesi 2,9. Secondo la valutazione per singola missione, la spesa ancora da sostenere per gli interventi esaminati è soprattutto concentrata nella missione 2 (rivoluzione verde e transizione ecologica), dove mancano 14,1 miliardi di euro circa, mentre per le altre missioni manca una cifra vicina ai 7 miliardi di euro, ad eccezione della missione 3 (infrastrutture per una mobilità sostenibile). Per i magistrati «lo iato fra adempimenti procedurali e spesa effettiva resta ancora molto significativo e non può non destare attenzione».

Dopo aver perso due quinti della nostra dotazione industriale dal 2008 a oggi, come ha relazionato il professor De Nardis, sarebbe ora poco sensato sciupare le opportunità contemplate dal Pnrr.

Un ulteriore ridimensionamento del nostro sistema industriale in termini di potenzialità, impianti e infrastrutture rischia di diventare un vincolo molto (troppo) pesante anche per quelle piccole e medie imprese bresciane che ancora oggi, nonostante tutto, rappresentano l’élite della manifattura europea.

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